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Premi Flaiano: intervista esclusiva a Riccardo Milani

Il regista di "Un mondo a parte" si racconta per i lettori di PescaraNews

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È un piacere e un onore ospitare sulle pagine di PescaraNews.net il bravissimo regista Riccardo Milani, qui nelle vesti di direttore artistico del prestigioso Premio Flaiano, giunto quest’anno alla 51ª edizione.

Ormai di casa nella nostra regione, che ha celebrato in maniera sublime con la sua ultima fatica cinematografica “Un mondo a parte”; viene da chiedersi se sia stato l’Abruzzo ad averla adottata o piuttosto il contrario?

Beh, no, è stato l’Abruzzo, in qualche modo, ad adottarmi. Ho trovato qui persone, luoghi e situazioni che mi hanno fatto innamorare della regione, della terra e dei territori. E’ una passione nata moltissimi anni fa, quando ero ancora un bambino e che dura ancora adesso e va crescendo. Le devo tanto, è una terra alla quale sono molto riconoscente e devo ringraziarla per tutte le opportunità umane e professionali che mi ha dato. Quindi mi sento anche in dovere di difenderla e sostenerla per quanto possibile.

Quanto è stata importante se non addirittura fondamentale per la sua carriera, e immaginiamo lo sia ancora, per lei, l’immensa figura di Ennio Flaiano?

Flaiano è una figura fondamentale per tanti motivi: nel cinema e nella letteratura, un calderone pieno di cultura, con quel coraggio e quell’ironia, quel modo di guardare il Paese italiano in maniera sì affettuosa, ma a volte anche dura, la ferocia che nasce dalla realtà, a volte anche impietoso, ma sempre cucito d’ironia e divertimento, che è una dote rara, una qualità altissima; un tratto distintivo che ci ha portato in alto nel mondo. Autori, persone così che lasciano un segno profondo e indelebile. Flaiano è tutt’ora una figura di riferimento per la nostra cultura e per il nostro Paese.

Impossibile non chiederle di “Un mondo a parte”, benché sappiamo ormai quanto questa pellicola sia stata esaminata, sviscerata e, in parte, già anche studiata nei minimi particolari: ripensandola oggi e immaginandone la visione fra qualche decina di anni, ne ipotizza una possibile classificazione come “favola moderna”, un atto d’accusa verso la società o qualcosa di ancora diverso?

È ovvio che io sia molto legato a “Un mondo a parte”. Non direi una favola moderna, nel senso che si tratta di un film che racconta il presente, un presente che io ho visto e toccato con mano, nei decenni passati, ma anche adesso. Se una persona qualsiasi visita quei territori, viene a conoscenza di quelle che sono le situazioni riportate nel film, senza inventare nulla ed è per questo che non parlerei di favola, ma piuttosto di una pellicola che lascia una strada aperta, questo sì, una possibilità. Penso che uno dei mali del nostro tempo sia la divisione a tutti i costi, l’ostilità anche nelle piccole questioni. Questo è un film che racconta di una comunità dove le cose si possono aggiustare, tutti quanti insieme, mettendo da parte divisioni, differenze ideologiche e politiche, nonché culturali e dove, però, c’è appunto una possibilità.

Può raccontarci un aneddoto da lei finora mai raccontato su Opi, il paese nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo dove, per i pochissimi che ancora non lo sapessero, sono state girate la maggior parte delle scene del film?

Più che un aneddoto, posso raccontare che durante la lavorazione del film c’è stato un momento in cui da Opi, verso la sua piana per la precisione, con gli attori e la troupe, mentre giravamo la scena in cui Antonio e Virginia (Albanese e Raffaele n.d.r.), i due protagonisti Michele e Agnese, guardano verso questa piana sottostante il paese e vedono i lupi, ebbene quel giorno i lupi c’erano davvero, si sono fatti sentire, li abbiamo visti e aveva nevicato per tutta la notte. Noi siamo rimasti lì, ci siamo alzati e abbiamo girato le scene molto presto quella mattina, mentre nel paesino di Opi si accendevano le luci, con gli attori che facevano un po’ di fatica per il freddo, perché si trattava di un’alba molto gelida, ma c’erano i lupi lì di sotto ed è stato, per tutti noi, un momento assolutamente magico.

Come dimostra anche lo splendido e toccante docufilm “Nel nostro cielo un rombo di tuono”, prodotto per Sky e dedicato alla leggenda di Gigi Riva, lei si può ormai definire, a tutti gli effetti, un cantore dell’umanità, intesa come contraltare agli stereotipi moderni e al sempre più dilagante capitalismo che ha avuto origine con l’Edonismo Reaganiano degli anni ’80: i suoi sono messaggi di speranza o, più malinconicamente e prosaicamente, di profonda disperazione?

Il capitalismo c’è sempre stato, non risale esclusivamente agli anni ’80, se non forse, questo sì, l’acuirsi, la tendenza a farne l’unico modello di riferimento possibile, può essere accaduto durante quegli anni. Certo è che sicuramente mi piace narrare dell’umanità e lo faccio perché ancora esiste. Se racconto di “Rombo di tuono” è perché si tratta di un uomo che ha fatto la Storia non solo del nostro Calcio, ma del nostro Paese, che ha insegnato valori importanti sia fuori sia dentro il campo. Quando questo accade si esaltano i valori di tutto il Paese. La gente ancora conserva questo spirito. Lo accantona un po’ perché spesso la vita ci costringe ad abbassare la testa e a sopportare cose profondamente ingiuste o sbagliate, però poi quando capita di andare a sollecitarla, questa umanità c’è e, benché nascosta, la preserviamo, quindi va conservata e raccontata.

Uno dei suoi maestri è stato Mario Monicelli. Ultimamente ha dichiarato che il grande regista le raccontava spesso episodi su Totò e Alberto Sordi. Ecco, se potesse farli rivivere e avesse la possibilità di dirigerli in un film, cosa le piacerebbe produrre?

Sì, ho avuto la fortuna di iniziare con Mario Monicelli, le prime esperienze, i primi set e film, le prime lavorazioni e le troupe e di questo sono ovviamente felice, orgoglioso e riconoscente alla vita per aver avuto la possibilità di conoscere una persona straordinaria, un uomo di grandissima struttura morale ed etica, nonché enorme dal punto di vista del coraggio. Gli aneddoti che raccontava spesso erano riferiti alle persone, agli esseri umani ed io, che ero un giovane aspirante cineasta venivo a contatto con quelle che sono le realtà del mondo del cinema. Lui riduceva tutto al lavoro, non alla cultura o all’arte, quindi niente di “campato per aria” e non di alto ma di basso profilo e così anche tutti gli attori che ho incrociato, da Manfredi, a Gassman, a Mastroianni. Ho avuto, quindi, ripeto, la fortuna di conoscere persone modestissime, umili, pur essendo dei giganti, ma che avevano assolutamente il senso della misura: un qualcosa che riguarda solo i grandi, da Monicelli appunto, a Totò o Sordi. Ricordo ancora che noi eravamo dei puristi della “presa diretta”, mentre Monicelli mi raccontava sempre che, ad esempio, “Guardie e Ladri” era un film quasi totalmente doppiato, dove Totò inventava cose e situazioni; oppure Mastroianni quando ne “I Compagni” teneva un comizio, l’arringa, era molto appassionato, con qualche parolaccia o battute che non ricordava, eppure parliamo di scene memorabili del Cinema, quindi con un senso dell’artigianato che prevaleva su tutto e faceva diventare grandi anche le cose più piccole.

Per chiudere la più classica delle domande: ha un sogno nel cassetto? Magari un film sull’Inter, la sua squadra del cuore o qualcosa di ancora diverso e mai narrato prima?

Ho sempre dei sogni nel cassetto. Vado cercando continuamente storie che abbiano un fondo di umanità, un racconto che metta al centro il Paese in cui vivo e le regioni, così diverse, però così identitarie. Ora sto preparando il prossimo film e un prossimo documentario, che sono uniti da un filo rosso legato a ciò che ho girato in precedenza, incluso l’ultimo. Sono spesso storie che, in qualche modo, credo possano essere definite “di resistenza”, umana e culturale.

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