Photoreporter, giornalista e antropologa specializzata ed esperta del continente africano. Ha collaborato con importanti giornalisti del calibro di Lilli Gruber ed è stata pubblicata da prestigiose riviste internazionali come National Geographic ed altre con cui collabora. Ha ricevuto molti prestigiosi riconoscimenti, l'ultimo dei quali proprio sabato 7 marzo, attribuitole dalla scuola internazionale di fotografia Graffiti di Roma. Ricevuto direttamente dalle mani del maestro Gianni Berengo Gardin. Appassionata di reportage sociale estremo di approfondimento e di Africa fino ad averne bisogno, spiegandoci il suo ultimo lavoro “TRIBE NO NAME” ci racconta anche il suo speciale rapporto con l'Africa e quanto il continente abbia influito sulla sua professione e sulla sua persona trasformandola in quella che è diventata.
La passione per l'Africa e il reportage sociale
«La mia è una famiglia di artisti e pittori. Nonostante tutti gli stimoli per indirizzarmi verso l'arte, non ho mai avuto questa passione. Fin da bambina sono stata molto anticonformista. Nel senso che, per farmi stare quieta, bisognava farmi vedere i documentari, soprattutto quelli sull'Africa. Sebbene nessuno in famiglia avesse avuto rapporti con l'Africa, questa passione estrema e inspiegabile nacque insieme alla fotografia. Volevo andare come fotografa perché avvertivo il bisogno di raccontare la vita, le persone e la luce vivendo con loro. La prima volta che andai, nel 2006, sono rimasta per 1 mese e mezzo. Acquisii la consapevolezza di voler tornare e così fu, pochi mesi dopo. La fotografia è sempre stata un tutt'uno sia con il giornalismo sia con l'Africa.»
Realizzare un reportage sociale in condizioni estreme
«TRIBE NO NAME è un lavoro su una tribù sconosciuta denominata "watoto wa shetani". Io sono stata la prima bianca che loro hanno visto. Questo lavoro in particolare ha già vinto tanti premi importanti, come l'Oscar Internazionale della Fotografia ed è un progetto sul quale sto lavorando già da tre anni. Ma non è finito perché, per affrontare una realtà tribale completamente sconosciuta come la loro, bisogna andare sul posto e vivere con loro seguendo i loro tempi e le loro abitudini. Per farlo è necessario prima resettare la propria "forma mentis", poi si riesce a capire, studiare e raccontare. Non si può parlare in inglese a una donna masai che vive nel mezzo del nulla, per questo ho dovuto imparare lo swahili. Non potevo pretendere di conoscere una cultura tornando in albergo la sera e ripresentandomi la mattina seguente perché già sei il diverso, quello più fortunato. Infatti mi dicevano “stai con noi sei mesi... dimagrisci 15 kili... però poi te ne vai. Noi rimaniamo qui...»
I watoto wa shetani, figli del demonio
«Per raggiungere questa tribù sconosciuta ci vogliono 12 ore di aereo fino in Tanzania. Atterraggio a Dar es salam. Per fare 500km ci vogliono 13 ore di pullman da 40 posti con 130 persone, cani galline e pecore, tutti stipati insieme. Quattro ore di fuoristrada per raggiungere la foresta se il percorso non è troppo bagnato, altrimenti si impiegano anche 12 ore. Altre 10 a piedi per internarti dentro la foresta, dove l'ultimo tratto si sale con le corde per raggiungere la tribù, posta a 2200 metri di altezza.
Vive lì perché è stata cacciata dalla regione dell'Iringa a causa di una forma di epilessia gravissima di cui sono tutti affetti. La gente del posto che, per cultura e tradizione va prima dallo stregone e poi dal medico, li considera watoto wa shetani, figli del demonio. La loro epilessia provoca attacchi violentissimi, è totalmente diversa da quella che conosciamo e sembra essere causata da un parassita del maiale. Poiché a quelle altezze non è caldo, possono allevarlo agevolmente e, vivendo a stretto contatto con l'animale, si diffonde l'infezione cerebrale che provoca la loro epilessia. Bevono anche un fermentato alcolico della canna da zucchero sul quale, essendo molto dolce, proliferano ovviamente i batteri. Nell'insieme si genera questa forma gravissima di epilessia endemica nella tribù. Ho trovato persone con mutilazioni anche molto pesanti perché a 2200 metri tutti si stringono attorno al fuoco e quando arriva un attacco epilettico possono cadervi dentro con tutte le conseguenze.»
Dallo studio alla missione umanitaria.
«Mentre li conoscevo la mia è diventata anche una missione umanitaria. Nei tre anni sono riuscita a portare loro due camion di medicinali. Assumendoli almeno una volta al giorno evitano gli attacchi epilettici. L'obiettivo principale è di aiutare i bambini prima che sviluppino la forma più grave in cui non ci sono più con la testa. Fino ai sei anni riesci a curarli meglio facendo accettare l'uso delle medicine solo perché ho vissuto con loro. Vado su e torno continuamente perché la questione è anche fisica. La loro vita è estremamente difficile. Oltre i due mesi, si fa fatica. Si vive nelle capanne e, per quanto ci si voglia adattare, l'alimentazione è poco nutriente. In più, premi importanti come questo aiutano anche a far conoscere queste situazioni».
L'Africa mi ha insegnato ad essere la persona che oggi sono
«Io sono arrivata a grandi traguardi mantenendo l'umiltà e la disponibilità con tutti proprio perché l'Africa mi ha reso la persona che sono. Venivo da un mondo patinato: scattavo le foto di scena per Mariangela Melato a soli 23 anni. Sebbene non sia mai stata egoista o legata alle cose, rispetto a quel tipo di vita a base di feste e champagne, che io non critico perché per loro è la normalità, si nota una discrepanza enorme. Io ho vissuto l'Africa dove non c'è niente e credo che se non vi fossi andata, oggi sarei una persona diversa.
L'Africa mi ha insegnato a vivere i veri valori, mi ha aiutato ad accettare la precarietà della vita, la malattia. Mi ha insegnato a reagire perché oggi ci sei e domani no. Il bimbo che vedi oggi, magari domani non c'è perché ha preso la malaria ed è morto perché non aveva 3 euro per curarsi. Ci stai male perché alla sofferenza non ci si può abituare. Ma, senza l'Africa non avrei questa forza. Per questo consiglio sempre a chiunque di andare. Noi pensiamo che sia indietro per l'attaccamento ai propri riti e tradizioni, invece è molto avanti a noi perché è felice. Mentre qui si dice “tu sei felice perché...” in Africa impari che la serenità di per se è già felicità. Se non hai niente e quel giorno non mangi, sei felice comunque. Non a caso c'è il mal d'Africa».
La cultura dell'ascolto
«Il saluto tipico “habari za leo” significa letteralmente come stai, cosa dici di nuovo. Se lo dicono di continuo ed è buona educazione rispondere sempre “nzuri”, bene. Poi si ascoltano a vicenda perché oggi ci sei e domani no, per loro è la normalità. Magari hanno avuto un lutto importante ma non si lasciano mai prendere dagli eventi. Per loro ascoltare come stanno gli altri può essere anche più importante che coltivare la terra. Se un vicino ha un problema, loro fermano il lavoro nei campi e lo ascoltano tutto il tempo che è necessario, anche per ore. Magari domani non mangiano perché non hanno lavorato i campi, ma in quel momento è più importante ascoltare. La loro è una cultura basata sulla comunicazione e sull'ascolto».
La società italiana e quella africana a confronto
«Poi, torni in Italia e ti accorgi di essere molto diversa dagli altri. Nel senso che non lasci scorrere l'acqua mentre ti lavi i denti perché hai fatto 20 km a piedi per un secchio d'acqua e, addirittura, sei in grado di accettare anche la nostra difficile modernità. La nostra è una società di gente triste. In Africa, nel nulla più totale, tutti sorridono e ti insegnano che alla fine tu devi guardare al presente. Il senso profondo del “carpe diem”. Quando hai vissuto l'Africa vera, quella dove non c'è niente, la depressione non ti viene più».
I tempi dell'Africa
«Venendo dalla nostra realtà non riesco ad essere proprio come loro. Però, ormai, non indosso più orologi, anche se mi ritrovo con moltissimi impegni, mi prendo il tempo che voglio. Alla fine, quando arriva la sera e dici: questo non l'ho potuto fare... per fare cosa? Se oggi non fai una cosa perché ti andava di farne un'altra, in realtà, se ci pensi bene, la puoi fare anche domani.
Loro ci vedono troppo preoccupati del domani. Se rincorriamo il tempo non possiamo goderci i tanti bei momenti come quelli con i figli. La mamma africana ha sempre il figlio sulle spalle oppure attorno e se lo gode al 100%. Noi siamo stati cresciuti da nonni e zii perché i nostri genitori, poverini, hanno dovuto lavorare inseguendo la carriera, che è necessaria per il futuro.
Anch'io corro sempre, però bisogna avere un attimo di pazienza, bisogna ascoltare le persone. Dovremmo avere i tempi africani, più dilatati. L'unica soluzione per stare meglio è cercare di prendersi tempo per ascoltarci tra di noi e non lasciarsi travolgere da questo vortice del “correre correre”».